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| Intervento dell'onorevole 
    Andrea Martella in occasione della commemorazione tenutasi a Blessaglia il 1° 
    dicembre 2019 (parte 1a) |  
| Signori delle Autorità, care amiche e cari amici, 
    cari ragazzi, uno dei più grandi poeti del Novecento, Jorge Luis Borges, scrisse 
    una volta che “è la memoria che ci fa esistere: senza di essa ci si avvia verso 
    una sorta di amnesia finale in cui non sappiamo più da dove siamo venuti, che 
    cosa ci ha segnato, e in definitiva chi siamo stati”. Ecco, noi oggi siamo qui a Blessaglia di Pramaggiore, di fronte a questo 
    monumento – ed io vi ringrazio per avermi invitato ad essere con voi in una 
    giornata così particolare – proprio perché sentiamo forte il dovere di 
    ricordare. Di non dimenticare il cammino che il Paese e le nostre istituzioni 
    hanno compiuto.
 E quanto furono duri, e dolorosi, i passi compiuti in quel tempo buio per 
    riconquistare ciò che di più caro esiste, per una persona e per un popolo 
    intero: la libertà. Quella persa a causa di una guerra sciagurata voluta dal 
    regime. Una guerra iniziata con promesse solenni di gloria e di benessere e 
    finita nel modo più doloroso ed umiliante.
 Con il nostro esercito in rotta. Con metà del nostro territorio nazionale 
    occupato da una forza straniera guidata da un’ideologia fatta di razzismo e di 
    antisemitismo, di odio e di volontà di dominio. Con tutta una popolazione 
    sottoposta a privazioni e stenti, a sofferenze e lutti.
 Ne sono testimonianza, purtroppo, i fatti avvenuti anche in questa terra nei 
    durissimi mesi che separarono l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre, 
    l’inizio della Resistenza, e il momento della Liberazione. Oggi ne ricordiamo 
    uno terribile, crudele, in cui persero la vita otto partigiani. Catturati, 
    interrogati e torturati, giustiziati in modo barbaro: impiccati agli alberi che 
    costeggiavano la via Postumia, con la popolazione radunata a forza e costretta 
    ad assistere.
 Prima sei, il 27 novembre del 1944. Poi altri due, pochi giorni dopo, il 2 
    dicembre. Esattamente settantacinque anni fa. Avevano dai 18 ai 27 anni. E 
    poiché ogni vita umana è unica e irripetibile, non è mai un numero, non è mai 
    una statistica, è giusto ricordare anche oggi i loro nomi: si chiamavano Giodo 
    Bortolazzi, Flavio Luigi Stefani, Casimiro Benedetto Zanin, Michail Zinowsky, 
    Giuseppe De Nile, Bachisio Pau, Angelo Antonio Cossa e Alfredo Fontanel.
 La loro è la storia di una generazione, di tanti giovani che ebbero il coraggio 
    di fare una scelta che avrebbe cambiato la vita loro e dell’Italia. La storia di 
    tante ragazze e tanti ragazzi che scelsero di non lasciarsi vivere, di non 
    pensare alla vita come una chiusura in se stessi. Avevano diversi ideali, erano 
    partigiani comunisti e socialisti, azionisti, cattolici, liberali, anche 
    monarchici.
 Ma tutti fecero quella scelta, pagando in prima persona, perseguitati e 
    condannati nelle carceri fasciste, torturati e uccisi. E non scordiamo mai che 
    ci furono moltissimi altri ragazzi come loro, in divisa, che scelsero di non 
    cedere le armi e per questo persero la vita, come accadde per la divisione Acqui 
    a Cefalonia, o per i marinai della corazzata “Roma”. Lo ripeto: non possiamo e 
    non vogliamo dimenticare.
 Per questo siamo qui oggi. Per ricordare quel che accadde settantacinque anni 
    fa. Insieme alle SS, a compiere eccidi come questo, spesso c’erano anche degli 
    italiani, come quelli appartenenti alle brigate nere di San Donà di Piave e di 
    Portogruaro. Alcuni erano molto giovani, è vero. Alcuni scelsero la Repubblica 
    di Salò in buona fede, è vero. Ma questo non diminuisce la colpa e la gravità 
    delle loro azioni.
 E allora oltre a sapere, è necessario distinguere. La verità storica non si 
    cambia, non si può cambiare: da una parte c’era il bene, dall’altra il male. Da 
    una parte c’era chi lottò per restituire al nostro Paese quella libertà di cui 
    oggi godono tutti gli italiani indistintamente: partigiani, soldati, civili, 
    sacerdoti come Don Luigi Peressutti, che tentò fino all’ultimo secondo di 
    convincere gli ufficiali delle SS a risparmiare le vite dei prigionieri. 
    Dall’altra c’era chi scelse, con Salò, la Germania hitleriana, la collaborazione 
    nelle deportazioni, nello sterminio degli ebrei, nelle stragi.
 Le nostre radici, il senso profondo della nostra identità e della nostra unità 
    nazionale sono lì, in quel tempo. Dalla spinta verso la libertà e la democrazia 
    che animò la scelta di tanti giovani nacque la Repubblica. Grazie a uno spirito 
    di concordia e ad un senso delle istituzioni che riuscì ad essere più forte 
    delle rispettive ragioni, fu scritta la nostra Costituzione, furono sanciti i 
    principi e i valori grazie ai quali l’Italia è cresciuta ed è un grande Paese. È 
    nostro dovere non disperdere un patrimonio così grande e prezioso.
 Soprattutto pensando alle giovani generazioni, alle ragazze e ai ragazzi come 
    quelli che sono qui stamattina. Guai ad abbassare la guardia, a dire che il 
    razzismo, le discriminazioni etniche, religiose e politiche, siano ormai 
    scomparse. Non è così. Nemmeno nel nostro Paese. E soprattutto negli ultimi 
    tempi abbiamo avuto diversi esempi di questo, purtroppo. Se una donna 
    straordinaria di quasi novant’anni, riemersa dall’abisso più profondo in cui mai 
    l’umanità sia caduta, sopravvissuta ad Auschwitz, è costretta oggi a vivere 
    sotto scorta, allora vuol dire che qualcosa di profondo rischia di lacerarsi, 
    nel nostro tessuto sociale.
 Se come lei stessa ha sottolineato intervenendo recentemente in Aula nel suo 
    ruolo di senatrice a vita, i casi di razzismo, sempre più frequenti, troppo 
    spesso vengono “trattati con indulgenza” e “sembrano entrati nella normalità del 
    nostro vivere civile”, mentre si fa sempre più allarmante la diffusione dei 
    linguaggi di odio, sia nella Rete sia nel dibattito pubblico, allora vuol dire 
    che di tempo da perdere non ce n’è più. Dobbiamo tutti – le istituzioni, le 
    scuole, ognuno di noi come cittadino – spendere ogni energia per coltivare il 
    ricordo di quel che accadde e per educare i giovani a riconoscere il valore 
    della tolleranza e del rispetto delle diversità.
 E io credo che in tal senso proprio Liliana Segre sia l’esempio, direi 
    l’incarnazione stessa – con il suo continuo richiamo non solo a quel che accadde 
    allora, ma all’intolleranza di questo nostro tempo e al pericolo di quel che può 
    accadere oggi, senza mai indulgere alla commozione o al pietismo – di quell’uso 
    efficace e “attivo” della memoria su cui dobbiamo continuare a puntare con 
    determinazione. Spesso la senatrice Segre insiste nel dire che la cosa più 
    terribile provata sulla propria pelle di bambina è stata l’indifferenza.
 E che è 
    proprio questo, anche oggi, il pericolo più grande da evitare: l’indifferenza.
 
 |   | ...continua .... 
 
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